domenica 31 dicembre 2023

inediti _ la visita

 





La visita


Vivo qui. È una casa a schiera, costruita ormai cent'anni fa. Tutte le piccole case adiacenti hanno la stessa struttura: ad ogni casa si accede da una piccola scala, ogni casa ha un piccolo giardino davanti. Le dimensioni sono minime. Silenzio intorno.

Ogni cosa com'è sempre stata. Ci sono le foto di tutta la mia famiglia, gli scarni mobili sempre gli stessi, i colori, gli odori, tutto immutato. Eri soprattutto tu che volevi fare dei cambiamenti. 

Ora che il tuo profumo sta svanendo anche nell'ultimo rifugio - l'armadio della nostra stanza - sarebbe stato bello vedere intorno a me ancora qualcosa di tuo. Amavi il viola. Una carta di piccoli fiori viola, averla anche solo nel soggiorno, perché dissi di no? Forse eravamo troppo grati alla vita per fare progetti: ci bastava ciò che già avevamo, noi stessi.

Mi siedo. Apro il giornale. Ci sono dentro tutti i nostri giorni, conservati come si fa con i fiori secchi degli erbari. 

Ci sono i versi che ti dedicavo:

"Sono qui che aspetto, ti guardo da lontano.Ferma nell'odore dei mandaranci gridato dai venditori. Dimmi: perché mi senti? Perché mi vuoi?"

Richiudo tutto, e lo ripongo sullo scaffale grande, sopra i libri che leggevi. Ci sono I complici di Simenon, c'è quel piccolo libro della Woolf che amavi tanto, ci sono le poesie della Dickinson.

Alcuni rumori, dei passi. Saranno le solite visite qui accanto. 

No, stavolta no. Sei tu. 

Mi saluti: "ciao amore mio, sono qui. Mi senti?".

E io: "certo che ti sento, perché non entri? Sai, devo dirti una cosa, subito. Pensavo che stavolta potremmo davvero metterla quella carta che ti piaceva tanto, quella con le violette". 

Lei resta con lo sguardo fisso, gli occhi un po' arrossati, ora li vedo meglio.

Mi dice: "stanotte sognavo. Non mi capita più tanto spesso ormai. E ti vedevo che tornavi, quella volta, l'impermeabile scuro, la giacca di lana, il lupetto amaranto. È lì che sentivo di più il tuo odore, proprio sulle gote".

Era il giorno quando avevo perso la coincidenza del treno ed ero arrivato a casa solo alla sera. Lei tremava mentre mi stringeva, ma soprattutto cercava quell'odore.

Ha lo sguardo vuoto e ricomincia: "ma non importa".

"No, importa eccome, riesco a ricordare ogni dettaglio di quell'abbraccio", le dico.

Ma lei, di nuovo spenta, sussurra nel pianto spezzato: "perché non torni almeno una volta?" 

Sento uno squillo, è il tuo telefono. La vedo che parla, accenna a sorridere, gli occhi si placano. Sarà sua sorella. E mentre la scruto in silenzio, finalmente penso che dovrei cambiarla davvero questa casa. Portarla a vivere al mare, lontano da qui. Mio padre mi raccontava spesso di una casa al mare che aveva sempre sognato sulla costa dello Jonio. E io l'ho immaginata avvolta dalle spume delle onde infrante sulla scogliera, mai in estate, sempre come ora, in inverno, con le luci livide e possenti. Perché no? 

Mentre penso a queste cose, lei ripone il telefono nella borsa, e ricomincia a guardare. È un po' stanca e si va a sedere sulla panchina del giardino: si guarda attorno come sognando.

La chiamo: "stai pensando al pergolato? Un altro dei nostri piccoli sogni incompiuti".

Lei guarda in basso e osserva: "è strana questa sensazione di calore, di vita. Eppure poco fa era così freddo il viale." 

E comincia a ripetere tra sé: "Iam hiems transiit... flores apparuerunt in terra nostra... tempus putationis advenit… vox turturis audita est in terra nostra...".

Già. Ha proprio ragione. Il tempo della potatura è arrivato. 

"E se domani non mi trovi - le grido - sarò a cercare una nuova casa, sugli scogli dello Jonio."

Ma lei si rialza. Mi guarda e dice: "sì, l'inverno è passato, il tempo della potatura è arrivato, la voce della tortora canta… Domani vengo a cambiarla questa tua foto. Porto quella col lupetto amaranto. E ti sentirò ancora amore mio."

La guardo che se ne va. A domani, penso. Eppure domani vorrei non esserci. Serro la chiave. La vedo mentre guarda distratta gli altri sepolcri in fila. 

Una sera venne in ritardo, era già troppo buio, ma aveva nevicato e la neve riflettendo la poca luce donava a questo viale una dimensione irreale, dove si scorgeva ogni dettaglio senza che apparentemente si vedesse: fiori finti, vasi secchi, guglie. Potei guardarla solo da lontano, il cancello era ormai chiuso. 

"Sei stata al lavoro sino a tardi vero?" le gridai. "Venire qui, da sola, con questo tempaccio. Devi stare più attenta, lo sai. Senza di te come farei." 

Torno a sedermi. Prima che sia tardi, prendo il giornale, lo apro e scrivo per il foglio di oggi: "L'inverno è passato e il tempo della potatura è arrivato. Abbiamo ascoltato la voce della tortora... Che l'inverno passi solo per te, amore mio."




Luca Alerci

venerdì 2 settembre 2022

Dialoghi. Paolo De Chiesa



Siamo a colloquio con Paolo De Chiesa, figura di riferimento per gli sport invernali, testimone degli anni più belli del nostro sci, protagonista di epiche sfide, ed oggi commentatore ed analista raffinato e intelligente. Innanzitutto, giunti come siamo al primo anno del percorso olimpico verso Milano Cortina 2026, volevamo chiedergli quali prospettive ci sono per lo sci italiano, per le discipline tecniche e per quelle della velocità. 


Intanto grazie per le belle parole. Iniziamo da Milano-Cortina. In realtà ci sono ancora tre stagioni piene più l'anno olimpico, e quindi molte cose potranno cambiare.

Per quanto riguarda lo sci alpino, abbiamo grandi campioni anche se purtroppo pochi, soprattutto tra gli uomini. Ma andiamo con ordine. In campo femminile, Sofia Goggia fa un mestiere molto pericoloso, come abbiamo visto in questi anni. Se tutto, come speriamo, andrà bene nelle prossime stagioni, sarà sicuramente una protagonista assoluta delle olimpiadi del 2026. Per quanto riguarda la Brignone invece, avrà 37 anni per questo appuntamento e parteciperà solo se potrà ancora essere ai massimi livelli, altrimenti no. La Bassino, in ultimo, è giovane ma, pur essendo una grandissima, non è ai livelli delle due compagne. È comunque in grado di arrivare tranquillamente a medaglia.

Vedremo poi se verranno fuori delle nuove campionesse. A me piace molto la Pirovano che si è però fatta male e dobbiamo capire come reagirà. In slalom c'è davvero poco ahimè. 

Passando agli uomini, Paris rimane il nostro massimo campione, nonostante dopo l'infortunio non sia più quello di prima, soprattutto in SuperG e, nella sua discesa, non è sempre il Paris che conoscevamo. Vedremo la prossima stagione cosa ci dirà di lui. 

Per quanto riguarda lo slalom, è dura. Moelgg si è ritirato ed era fisiologico; né Gross, né ovviamente Razzoli potranno arrivare al 2026. Resta quindi Vinatzer, atleta velocissimo, sul quale sono appuntate le speranze dello sci azzurro: deve però ancora dimostrare di essere un campione vero, capace di vincere, in una disciplina così complessa come lo slalom, dove emergere è un'impresa più che ardua (lo abbiamo visto una volta ancora quest'anno).

Per il gigante c'è De Aliprandini che, nonostante la medaglia mondiale, non può essere un riferimento (ha fatto un solo podio in coppa del mondo nella sua carriera). Può andare a medaglia, ma più facilmente no.

Per i giovani, ci sono Della Vite e Franzoni, molto bravi, che però devono ancora dimostrare tutto: possono diventare bravissimi ma è presto per fare pronostici, essendosi appena affacciati in coppa del mondo. 

Insomma, il futuro non sembra roseo ma qualcosa può cambiare in meglio. Adesso c'è Paolo De Florian come allenatore responsabile (figlio del mio allenatore Cesco De Florian) e speriamo possa far venire fuori qualche bella novità. Speriamo, appunto.

Programmare questi eventi non è, in ogni caso, facile. Ci sono dei giovani molto bravi che però sembrano fare fatica ad arrivare ai più alti livelli.




Quali sono, invece, le prospettive per la prossima coppa del mondo? C'è molta attesa per la nostra incredibile squadra femminile così come per le prestazioni della fuoriclasse assoluta Shiffrin. Che stagione si aspetta per le donne? Tra gli uomini invece ci sono dei veri colossi, Odermatt e Kilde su tutti. Cosa ne pensa Paolo De Chiesa? 


Intanto vediamo come avranno passato l'estate questi grandi campioni. Tra gli uomini, Odermatt è un fenomeno, un campione assoluto che spazia nella polivalenza: imbattibile in gigante, straordinario in SuperG, capace di vincere in discesa. Renderà carissima la vita agli avversari. Poi c'è appunto il granitico Kilde, che dopo l'infortunio ha perso qualcosa, ma è sempre lì, ovviamente, mentre Kristoffersen essendo limitato alle sole discipline tecniche non ha le stesse chance. 

In campo femminile, la Shiffrin sarà ancora la campionessa da battere: sta forse spostando i suoi orizzonti verso le discipline veloci mentre in quelle tecniche non è più imbattibile come prima. Certo, c'è stata la débâcle olimpica, ma molto probabilmente è stata legata al tipo di neve, tanto che al rientro in coppa ha ricominciato a vincere. È umana pure lei, a dimostrazione che anche gli dei possono cadere. Del resto, forse per la tragica vicenda del padre, è cambiata, si è mostrata più fragile e quindi anche più amata.



La formula della coppa del mondo è sempre vincente e affascinante. Ci sono gare dal fascino immutabile, che valgono quasi più di quelle iridate o olimpiche. Le novità proposte vanno nella giusta direzione? Che possiamo aspettarci dalla nuova discesa del Cervino?


Quella di Cervinia è una grande e bella scommessa anche se quest'anno, considerato lo stato del ghiacciaio soprattutto nel versante italiano, non sarà facile disputare la gara, a meno di un drastico raffreddamento del tempo già ai primi di ottobre. Ci sono stati comunque sforzi enormi, sia da parte svizzera che da parte italiana e speriamo che il tempo darà una mano: è lui il giudice impietoso. La pista non è difficile, si tratta più che altro di una bella operazione di marketing per lo sci, ma sul piano tecnico non è al livello di altre piste di coppa del mondo. 

Per quanto riguarda la struttura della coppa, pongo il caso della combinata: è una gara potenzialmente bella ma che purtroppo è per pochi intimi. In ogni modo, essendo presente nelle rassegne mondiali e olimpiche, deve essere presente anche durante la stagione: è un grandissimo errore che non sia inserita nei calendari.

Il parallelo invece non è una gara adeguata: è un ibrido, negli intenti e nell'interpretazione. È un'esibizione da circo, poco credibile sul piano tecnico ed inoltre, per come si va oggi, è anche molto pericolosa per gli atleti.

A me piace lo sci delle grandi classiche: Wengen, Kitzbühel, Garmisch, Val Gardena, Badia, Campiglio, Adelboden, sono templi che con le loro colonne tengono in piedi tutto: hanno appeal, hanno grande seguito, su queste si deve puntare sempre. Sono gare dai grandi contenuti, iconiche, irrinunciabili, che non vanno neanche messe minimamente in discussione: senza le gare in queste località finirebbe lo sci, così come finirebbe lo sci senza più le squadre nazionali, come qualcuno vorrebbe (la federazione internazionale in questo mostra qualche ambiguità, soprattutto se cerca di imitare in piccolo altri circuiti come la Formula 1).



Vorrei concludere con una domanda sulle nostre montagne, da nord a sud. Il cambiamento climatico avanza drammaticamente e l'Italia è una terra di confine, per molti aspetti. Quanto è possibile fare per garantire un maggiore equilibrio tra sport invernali e ambiente?


Lo sci è legato totalmente alle condizioni climatiche e, di questo passo, sembra destinato a soffrire parecchio. L'accelerazione dei cambiamenti è sicuramente opera dell'uomo, pur essendoci dei cambiamenti che invece sono ciclici e sui quali si può fare ben poco. Il paradosso è che, oggi, non è l'Europa la frontiera, che è già avanti nella transizione, ma i grandi paesi come Cina e India a cui, del resto, non si può chiedere di smettere di utilizzare fonti fossili che invece noi per decenni abbiamo usato senza farci troppi problemi. Speriamo che ci sia ancora tempo per fronteggiare il cambiamento. Io ho comunque grande fiducia nella Terra e nella sua capacità di trovare in ogni caso nuovi equilibri. Però dobbiamo fare la nostra parte. 




giovedì 4 agosto 2022

I nostri consigli di lettura per l'estate

 https://www.lucialibri.it/2022/08/02/estati-indimenticabili-libri-splendidi/

Dialogo con Giuseppe Barbera






Siamo a colloquio con Giuseppe Barbera, uno dei protagonisti della ricerca agronomica in Italia, massimo esperto di colture arboree e di cultura del paesaggio, nonché saggista raffinato, curioso, eclettico (ricordiamo qui gli splendidi Conca d'oro per Sellerio, Abbracciare gli alberi e Il giardino del Mediterraneo per l'editore Il Saggiatore). Mi sembra inevitabile iniziare con una domanda sui cambiamenti climatici. Come è possibile trovarsi impreparati di fronte a questi eventi, nonostante gli allarmi ripetuti della comunità scientifica? 


È di queste settimane la notizia che al Parlamento europeo è stata rigettata la richiesta di sospendere, in tempi ragionevoli, l'uso delle fonti fossili, del gas e del nucleare. Ecco, questo ci fa capire che andiamo di corsa verso la sesta estinzione. 

La quinta estinzione, come sappiamo, è legata all'asteroide il cui impatto con il pianeta terra ha fatto scomparire i dinosauri e ha totalmente alterato gli equilibri biologici del pianeta. La sesta estinzione, invece, di cui parlano da tempo scienziati importanti, è stata rievocata da qualche anno, da quando si parla di Antropocene. È una nuova era geologica che stiamo attraversando, in cui lo storico, antichissimo rapporto tra uomo e natura, nato 12000 anni fa insieme all'agricoltura, è diventato un rapporto di rottura: uomo e natura sono ormai in guerra tra di loro. È una guerra che non possiamo che perdere, ovviamente: nessuna tecnologia ci può aiutare quando la natura o il creato (ognuno la chiami come vuole) si rivolta contro di noi. 

Sappiamo perfettamente che da quando è iniziata l'era industriale, quindi 200-250 anni fa, i gas serra, anidride carbonica, metano e altri, sono aumentati nell'atmosfera come non accadeva da centinaia di migliaia, milioni di anni, da quando cioè l'aria è diventata respirabile.

È l'effetto serra, appunto, quello che avviene in piccolo sotto la copertura di plastica all'interno di una serra o in una macchina sotto il sole d'estate: il calore diventa insostenibile. 

Cosa fare subito? Per fortuna, diciamo che le norme internazionali, i protocolli tra i diversi paesi ci sono sempre, e ci dicono di abbattere drasticamente le emissioni di gas ad effetto serra, riducendo, ma non rinunciando ovviamente, all'uso di carbone, petrolio, gas.

Sono cose che sono state stabilite già anni fa. Poi è arrivata la pandemia, e ce lo siamo detti con ancora maggior forza: il covid è un altro risultato di questi squilibri. Ci siamo ripetuti che bisognava cambiare tutto, cambiare stile di vita, politiche, comportamenti individuali, perché altrimenti ciò che è successo succederà altre volte, e perché diversamente il cambiamento climatico, già difficilmente arrestabile oggi, diventerà irreversibile. Avevamo iniziato a farlo, il PNRR va in questa direzione, e poi è arrivata la guerra. La guerra è guerra, abolirla è il sogno di tante generazioni, ma questa guerra in particolare, assurda e ingiustificabile, non solo sta distogliendo l'attenzione dalla lotta ai cambiamenti climatici, ma anzi sta riportando al centro i combustibili fossili. La crisi energetica sta riportando indietro le lancette, e siamo ancora a bruciare l'energia fossile e a liberare quella CO2 che gli alberi avevano conservato dal Quaternario, quando avevano reso possibile la vita sulla terra per organismi più evoluti. Ci prepariamo, appunto, alla sesta estinzione. 



Quali le risposte possibili di fronte a queste emergenze che si rincorrono una dietro l'altra, che si aggravano a vicenda? Come può un mondo così diseguale nella distribuzione della ricchezza trovare delle soluzioni? 


L'orizzonte non può essere quello della decrescita, non facciamo questa confusione: decrescita, come crescita, si riferisce  ad una prospettiva quantitativa. Io preferisco termini qualitativi, progresso, sviluppo, perché bisogna utilizzare meglio le risorse, progredendo meglio: naturalmente bisogna scegliere stili di vita più sobri, questo il termine più adeguato. L'equilibrio si è rotto negli anni Cinquanta/Sessanta con la "grande accelerazione ", il cosiddetto boom economico basato sul Pil, sui consumi. Non è questo il modo giusto: possiamo soddisfare i nostri bisogni ma anche le nostre aspirazioni con più sobrietà e soprattutto più equità globale. A questo proposito ritorno sul tema dell'emergenza siccità di questa estate. Gli scenari proposti dai gruppi di lavoro in seno alle Nazioni Unite, ci parlano, per il Mediterraneo, di temperature in crescita del 10% e di precipitazioni in diminuzione addirittura del 20% rispetto alle medie degli ultimi decenni, e lo stiamo vedendo già oggi. Mi piace citare questa vignetta che circola nella rete: stiamo vivendo l'estate più fresca dei prossimi 50 anni… Andremo quindi verso scenari peggiori. Ricordiamo allora che, ad esempio, mangiando solo un po' meno carne, potremmo utilizzare le risorse idriche risparmiate, verso coltivazioni meno energivore. Naturalmente nei nostri paesi ricchi e colti, questi discorsi cominciano ad essere diffusi e ascoltati, ma nei paesi poveri la prospettiva di crescita è ancora quella dell'hamburger al fast food, quei paesi poveri che, tra l'altro, non hanno alcuna responsabilità nell'incremento dei gas serra, e a cui oggi paradossalmente chiediamo di cambiare modello di sviluppo per salvare il pianeta che noi abbiamo distrutto. E con quale autorità morale possiamo chiedere questi sacrifici se ancora portiamo avanti politiche apertamente neocoloniali?



Parliamo un po' della Sicilia. Il vero problema climatico e ambientale è legato all'estate, che sta diventando troppo calda anche in quota. Al di là dei picchi di calore, è la persistenza, per settimane, di temperature molto sopra la media a caratterizzare le estati dalla metà degli anni Ottanta in poi, con sempre maggiore intensità. I processi sono ormai innescati. Quali frecce abbiamo ancora al nostro arco?


La situazione in Sicilia, per quanto riguarda la siccità, è migliore che altrove: negli ultimi anni, le precipitazioni hanno consentito un adeguato riempimento degli invasi ma purtroppo non ne abbiamo approfittato, poiché questi sono mal gestiti e non ci sono reti di distribuzione efficienti, sistemi di irrigazione congrui. Abbiamo continuato a sprecare. Come è possibile che non ci sia acqua nei campi? Assurdo. 

Naturalmente si deve dare spazio a sistemi non legati ai modelli fossili. Ricordo uno studio americano, dove si faceva il rapporto tra l'energia fossile impiegata in agricoltura e l'energia prodotta sotto forma di produzioni agricole: ebbene, si arrivava alla conclusione che noi "mangiamo petrolio", poiché l'attuale sistema è totalmente energivoro. Che questo sistema sia da superare, in Europa ormai lo abbiamo capito e vengono proposte politiche nuove, il Green new deal, l'agro-ecologia soprattutto, la circolarità: riutilizzare i residui, valorizzare le risorse che si impiegano, dalla campagna sino al consumo alimentare. Dentro l'agro-ecologia c'è anche l'agricoltura di precisione, la precision farming o agricoltura 4.0, legata all'uso delle tecnologie informatiche, i sensori, i droni, che ci consentono di intervenire puntualmente, solo dove e quando serve, con l'acqua, con la lotta ai parassiti. Questo è già il presente, ma non basta a risolvere il problema. Il problema si risolve solo con una visione sistemica che guardi quindi alla complessità, ed è la stessa visione che io in questi anni ho seguito per lo studio del paesaggio, perché il paesaggio non è una questione di bellezza, non è il panorama. Il paesaggio è la complessità, è affrontare i conflitti che ci sono nel rapporto tra uomo e natura, guardando non soltanto all'aspetto estetico (che comunque è anche cultura e attraverso il turismo lavoro ed economia) ma guardando agli aspetti economici, al fatto che l'agricoltore deve vivere del suo lavoro, agli aspetti appunto ecologici, al mantenimento degli equilibri, agli aspetti etici, fondamentali, e guardando anche all'energia. Oggi più che mai abbiamo bisogno di energie rinnovabili che, per definizione, sono diffuse su grandi superfici e hanno un grande impatto sul paesaggio e sull'agricoltura. Certamente la soluzione non sono gli impianti fotovoltaici di 100 ettari, di cui purtroppo si parla, che possono essere una facile ma pericolosa attrattiva per i produttori siciliani, stretti tra i mille problemi dell'agricoltura isolana e che sono facilmente tentati di abbandonare e affittare tutto alle imprese del fotovoltaico. È una prospettiva da evitare. E in tutto questo, ancora la maledetta guerra, che impone dei tempi immediati di intervento, quando invece la transizione ecologica ha bisogno comunque di anni per realizzarsi, soprattutto se si è tardato a sanare il conflitto tra agricoltura ed energia. 



Parliamo infine delle aree montane siciliane. Ci sono buone notizie, come ad esempio i fenomeni di rinaturalizzazione dei boschi artificiali, dove roverelle, lecci, ed altre specie autoctone stanno crescendo spontaneamente sotto le conifere e gli eucalipti. Ci sono però anche fenomeni di sofferenza delle faggete, per le onde di calore di cui dicevamo. Che prospettive ci sono nelle gestione della montagna in Sicilia? 


La questione è sempre la stessa purtroppo: in Sicilia non ci sono piani di gestione della montagna e dei boschi. Bisogna partire dalla conoscenza del bosco, delle specie, e definire le regole per la sua gestione (quello che si è fatto a Palermo sotto la spinta dell'Università, dopo l'incendio di Monte Pellegrino): bisogna definire quando e se diradare, cosa e quando piantare, come fare prevenzione antincendio e, dopo l'incendio, come intervenire. Tutte queste sono regole che si danno nei piani di gestione. Questi piani li fanno i selvicoltori, li fa la scienza, i laureati in Scienze forestali e ambientali. Io ho fatto per 10 anni il presidente di Corso di laurea in Scienze forestali e ambientali e seguo quindi da 25 anni la storia di questo corso. Si sono laureati circa 700 ragazze e ragazzi, e quanti sono stati assunti dalla Regione Sicilia in questi anni? Nessuno. È come voler sconfiggere la pandemia senza virologi…

Senza l'impegno di queste risorse, soprattutto umane, non ci sarà spazio per superare alcuna delle mille crisi ambientali siciliane e globali.


Luca Alerci

Agosto 2022



martedì 7 gennaio 2020

7.1.2012

ci sono giorni pieni di tutto.
ci sono giorni di pomeriggi davanti al fuoco, di domeniche passate tra piccoli borghi, di grandi tavolate, di amici ritrovati, di nat king cole, di briscola in cinque, di scarpe comprate con gli sconti, di raccolte di noccioline e pere williams, di generose speranze (soprattutto tue) e di cadute (soprattutto mie), di una casa che ti aspetta sempre.
ci sono giorni pieni di lutto.



giovedì 3 ottobre 2019

Dialogo con massimo onofri. di l. alerci







Massimo Onofri è uno scrittore, un intellettuale, un critico, una figura tra le più rilevanti in Italia. Lo abbiamo contattato, e volevamo farlo da tanto tempo, per rivolgergli alcune domande. In primo luogo Sciascia, Autore che è stato capace, nella sua produzione, di tracciare un percorso, una mappa con la quale orientarsi nella letteratura, nella politica, nell'arte, nella storia del pensiero. Chiediamo a Massimo Onofri, interprete fondamentale dello scrittore di Racalmuto, a partire da "Storia di Sciascia", di fare la stessa cosa, darci una chiave di lettura della sua opera, ordinarne le fasi, i periodi, tracciarne l'evoluzione.

In primo luogo, mi fa molto piacere che anche nei giovani o comunque nelle generazioni successive (anche se, diceva Croce, i giovani hanno un unico dovere, quello di invecchiare...), il mio lavoro sia capace di fecondare l'analisi e il dibattito. Io sarò a Racalmuto, in occasione del trentennale dalla morte, ad occuparmi di nuovo di Sciascia, dopo Storia di Sciascia, nel quale veniva rovesciato il paradigma dello scrittore illuminista: Sciascia è semmai un barocco mentale, dissimulato dietro un finto illuminista. Nel suo bellissimo saggio su Stendhal, Sciascia parlò di tre gradi dello stendhalismo, e io mi sono fatto l'idea che esistono tre gradi dello sciascismo (forse è la prima volta che la dichiaro, quest'idea). Il primo grado dello sciascismo, quando si inizia a leggerlo, è ovviamente quello dei gialli problematici, dal più famoso Il giorno della civetta fino ai foschissimi apologhi sul potere quali Il contesto, Todo modo, Una storia semplice e soprattutto Il cavaliere e la morte. Questo è lo Sciascia da cui non si può non cominciare. Se però si entra dentro questo labirinto, si comincia ad amare molto il saggista, ed è questo il secondo grado dello sciascismo. Io farei, a questo proposito, un nome, che faccio adesso poiché è uno scrittore che ho conosciuto tardi ma che è diventato un modello fisso. Io mi sono accorto che Sciascia saggista è lo scrittore italiano che più somiglia a questo scrittore che ti dirò, e cioè Sebald, il grande Sebald, l'autore de Gli anelli di Saturno, di Vertigini, autore di un saggismo narrativo, misterioso, pieno di inciampi, metafisico. Sciascia, per eleganza, per saggezza, per forza, è in questo senso il Sebald italiano: in questo grado, Sebald è comunque ancora più grande di Sciascia. L'ultimo grado, riservato a pochi eletti dello sciascismo, è rappresentato da uno dei libri più misteriosi che siano apparsi nella storia di letteratura italiana, e cioè L'affaire Moro. Che scrittore è Sciascia? L'affaire Moro, infatti, sembrerebbe un libro di servizio e impegno civile, sollecitato da una indignazione, da una preoccupazione. E invece - inizia con "Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola…." e dunque con l'omaggio a Pasolini - già da queste prime righe bellissime, noi entriamo dentro una resa dei conti con tutta la letteratura italiana, che probabilmente non è stata in grado di raccontare i drammi della politica, se non con gli scrittori engagé, piuttosto rozzi (pensa al disamato Vittorini, una personalità interessantissima naturalmente, ma io la vedo come Sciascia, se si prende in mano Vittorini cadono le braccia... e scopri che è più grande Brancati - ma sono discorsi tutti già fatti da Sciascia). L'affaire Moro è ovviamente un apologo sul potere, è una resa dei conti con la tradizione, ed è una riflessione sulla forma della narrazione. Adorno disse: non è più possibile la poesia dopo Auschwitz. Ebbene, si potrebbe dire che, in Sciascia, il romanzo non è più possibile dopo la morte di Moro, perché diventa molto più romanzesca e incredibile la realtà, e Sciascia scopre di aver anticipato quelle vicende nei suoi romanzi. Non è affatto presunzione, come l'accusò Scalfari, ma è invece una constatazione, molto umile, di aver scritto dei libri dove già c'era quella storia d'Italia. Ma se si procede nella lettura e nella rilettura de L'affaire Moro, ci si accorge che è ancora una cosa ulteriore, è un libro sulla critica letteraria e sulla filologia e sull'interpretazione dei testi. Questo è il terzo grado dello sciascismo a cui possono arrivare solo gli spiriti eletti che sono entrati dentro Sciascia e ne possono capire davvero la grandezza.

In Storia di Sciascia, si individua come anello di congiunzione tra la fase classica di Sciascia e quella successiva, un libro come Il consiglio d'Egitto.
Si, un libro straordinario. In questa nuova chiave dei tre gradi dello sciascismo, rappresenta il passaggio tra il primo e il secolo gradino. È infatti anche un grande saggio implicito sul potere, forse il libro di Sciascia che ho più amato. Se, allora, si vogliono guardare i tre gradi dello sciascismo dal punto di vista dei libri da amare, prima si ama Il consiglio d'Egitto, poi Cruciverba e Nero su nero e poi, appunto, L'affaire Moro.

A proposito di eredità, di cose che si sono capite e non capite: le testimonianze di Sciascia, Pasolini, questa universalità, chi la interpreta nella letteratura italiana contemporanea? 
Il tempo di Sciascia, Pasolini e Calvino, uno scrittore grande che pur non amo, è passato; tre intellettuali e scrittori molto diversi ma così grandi, ebbene, non potranno esserci più, e non perché gli uomini e le donne siano peggiorati nel tempo. Ma perché gli Sciascia, i Pasolini e i Calvino di oggi fanno altro. Questi tre intellettuali avevano a che fare, nei loro obiettivi polemici, con la DC di Andreotti e Moro che, ci piaccia o non ci piaccia, sono dei giganti, a cominciare da Andreotti: un gigante del male? Un gigante comunque. Oggi la realtà politica è così semplificata, cosi semplice da leggere; e questa non è polemica contro qualcuno in particolare. Siamo di fronte a dei nani che non sono nani per qualità, ma che devono essere nani per emergere in questo mare di nani. Se ci fosse un Moro, un Andreotti, un Berlinguer, un Craxi, non emergerebbe poiché troppo complesso. Di fronte ad una situazione così, lo scrittore civile più impegnato ed efficace è un grande semplificatore, cioè Roberto Saviano. Non lo dico, attenzione, a detrimento di Saviano, che ha intercettato lo spirito dei tempi ed è il piu bravo a farlo. Per quanto mi riguarda, però, io credo che i veri scrittori sono da un'altra parte, e infatti leggo Sebald e sperimento forme di scrittura diverse, che sono implicitamente ma, non più, esplicitamente politiche. Io però non voglio essere pessimista. Non c'è più quella tensione tra scrittori, potere e contro-potere, questo è vero; la letteratura italiana è comunque in salute, solo che le cose si trovano dove non ce lo aspettiamo. Faccio un nome che forse non conosci. Giuseppe Marcenaro, col suo libro Cimiteri, è un saggista che può stare alla pari di un Sebald in Italia, che pratica una scrittura dentro un orizzonte che pare quello di Vincenzo Monti, neo-sepolcrale, dove il problema più grande è diventato l'invisibile. Faccio un altro esempio. Oggi, se non ci serve più Vittorini, ci serve molto di più Elsa Morante. Chi è Elsa Morante? È un genio del Novecento, che ha intercettato l'invisibile. Pensiamo a Lo scialle andaluso, dove la Morante ha intercettato nel mondo di qua, messaggi dell'aldilà. Io sono un figlio di Montaigne, ho sempre avuto sospetti sulla metafisica, ma oggi gli scrittori migliori si occupano di metafisica e non di fisica, del nichilismo, del problema della morte. La grande letteratura si gioca solo lì. L'ultima stagione in cui la politica e la società meritavano l'attenzione dei più grandi intellettuali e scrittori è stata, appunto, quella di Sciascia. Ovviamente non sto dicendo di gettare le armi, ma dico che gli intellettuali, sulla politica di oggi, non hanno da dire nulla di più o di meno di un normale cittadino. Facciamo i cittadini. La letteratura è da un'altra parte.

Uno degli ultimi libri di Massimo Onofri, Passaggio in Sicilia, ripercorre i luoghi dell'isola, seguendo le tracce della letteratura, dell'arte. Ci sono scrittori siciliani viventi che rimandano alla grande tradizione della letteratura siciliana? 
Che cosa sarebbe la letteratura europea dell'Otto-Novecento senza la Russia? Senza Tolstoj, Dostoevskij, Puskin, Gogol? La stessa cosa si dovrebbe dire del Novecento italiano. Che cosa sarebbe senza la letteratura siciliana? Quasi niente. Bisogna partire da questo, per poter fare un discorso serio, storicamente fondato. È chiaro che, anche nelle più giovani generazioni, la Sicilia ha una forte vitalità. Però io ricordo, quando esordivano, sino agli anni Ottanta, scrittori bravi come - ne cito uno - Roberto Alajmo, c'era una coesione che oggi non c'è più. È tutto frammentario. Oggi in Sicilia si incontrano scrittori interessanti, bravi: Domenico Conoscenti, che, con La stanza dei lumini rossi, ha scritto uno dei più bei libri della letteratura italiana degli ultimi vent'anni; tra le scrittrici la bravissima Vanessa Ambrosecchio, raffinata, coltissima, una straordinaria narratrice. Poi penso a carissimi amici, Salvatore Ferlita e Matteo Di Gesù. E penso che Sciascia, Consolo, perfino Bufalino, che pur era refrattario all'impegno, si collocavano dentro un laboratorio, che era soprattutto un laboratorio critico. C'erano le idee, a cui loro davano corpo. Oggi invece noi abbiamo bravissimi scrittori che vanno ognuno per la propria strada, non c'è più un laboratorio. Del resto, la Sicilia è stata il laboratorio critico dell'Italia, sin dall'Unità. Oggi dunque non c'è più un contesto, che c'è invece, clamorosamente, più vivo, in Sardegna, altra isola che abito. La fine del laboratorio critico siciliano avviene insieme alla fine dei laboratori politici della Sicilia: gli ultimi esperimenti sono stati, ci piaccia o non ci piaccia, prima Orlando e poi anche Crocetta, al di là dei risultati, per me da combattere - sono un anarchico con senso dello Stato, secondo la definizione di Sciascia - ma comunque sono stati grandi scommesse, atti di grandi generosità. Oggi non mi pare ci sia più niente da questo punto di vista, si vota Lega come dovunque. Anche in Sicilia, la politica come mediazione, come complicazione, come composizione di interessi non c'è più. Ci sono slogan e politici che sono lo status quo al massimo grado,

Una domanda obbligata. Massimo Onofri è attivo sulla rete, come tutti noi, ma questa rete sembra avere maglie sempre più strette, essendo il discorso sui social spesso orientato da poche entità di cui si sa pochissimo. Tra l'altro vanno emergendo pulsioni molto preoccupanti, oscurantiste, retrograde, anti scientifiche.
Io non mi preoccuperei più di tanto. La rete è la riproduzione del mondo. Quel tipo di idioti c'erano prima e rimbalzano ora sulla rete, inseriti in gruppi più o meno ampi. Sono battaglie perse. Per quanto mi riguarda, invece, sempre con Montaigne, ti posso rispondere solo sulla "stanza della mia torre". A me Facebook ha cambiato la natura di scrittore: Benedetti toscani (editore La nave di Teseo, 2017 ) l'ho scritto su Facebook. All'inizio erano tutte registrazioni delle fumate che facevo, o sul mio balcone ad Alghero, o sulla panchina sotto la palma nana. Era semplicemente una specie di reportage intimo, dell'interiorità, diciamo così. Certo, c'erano figure che avevano un corrispettivo nella vita reale: a volte scrivevo per mandare messaggi d'amore alla Principessa Nuragica, perché poi la vita è fatta così. Il mio ultimo libro, Le isolitudini - Atlante letterario delle isole e dei mari (editore La nave di Teseo, 2019 ) di cui sono molto orgoglioso, nasce per modificare la scrittura saggistica, antropologica. Ogni isolitudine è un romanzo latente: parlo delle Mauritius e allora ecco Le Clezio, il premio Nobel; parlo di Maiorca e racconto la storia d'amore di George Sand e di Chopin; vado nelle Antille e incontro Walcott; e poi ci sono naturalmente isole immaginarie. Ci sono cinquant'anni di letture matte e disperatissime, e di letture fatte proprio in quel momento, come per Le Clezio. Prima di raccontarla, l'isola che sceglievo viaggiando, era un pretesto per studiarla. Non ho studiato tanto come nell'anno e mezzo in cui ho scritto Le isolitudini, che poi sono delle fantasticherie. Ecco perché io amo Sebald e Walser, perché hanno dato concretezza ad un concetto del pur peggior filosofo della storia dell'umanità, Rousseau, che però ha prodotto uno dei più bei libri, che io adoro: Le fantasticherie del passeggiatore solitario. Rousseau è il padre di tutti i mali, dei totalitarismi, ma ha scritto questo libro, senza il quale non ci sarebbero appunto Sebald, il Walser de La passeggiata, il Thoreau di Walking (Camminare). Io, applicando il concetto di fantasticheria, mi sono anche costruito gli strumenti di una scrittura nuova, diversa dai saggi e dagli articoli classici, che continuo comunque a scrivere. Da questo punto di vista, insieme a Benedetti toscani, è uscito pure Fughe e rincorse, una raccolta di saggi "classica" (con un editore sardo, InScibboleth) che ho costruito per far lavorare i miei allievi. Io ho dato loro il mio libro, non ho niente, ho dato tutto a loro. E sono molto contento: il mio lato di professore è per me un lato molto importante. In una TV di Caltanissetta, mi hanno chiesto come fosse nato Le isolitudini e io non me l'ero mai domandato: e allora ti rispondo, ancora da figlio di Montaigne. Le isolitudini sono dei sogni, delle compensazioni di una vita reale insoddisfacente nell'immaginario, e il libro è nato proprio così: io ero molto innamorato della Principessa Nuragica, che veniva tutte le mattine da me, ogni giorno, per amarci. Ma poi è finita, e a me è rimasto molto tempo libero: e così sono nate Le isolitudini.

sabato 17 agosto 2019

Dialogo con Antonella Cilento di Luca Alerci








Antonella Cilento è una scrittrice, una promotrice culturale, una delle più importanti e generose docenti di scrittura italiane, una intellettuale sfaccettata. Vorrei partire dalla tua produzione letteraria e, in particolare, da Morfisa, romanzo del 2018, originalissimo, complesso, labirintico, parola borgesiana, quel Borges che intravediamo nei viaggi nel tempo e nell'invenzione fertile e colta. La scrittura di Antonella Cilento è una scrittura che, pur sul filo del piacere dell'invenzione, ha ormai il potere di decodificare il mondo mediterraneo, per farlo continuare a vivere nella sua insondabilità, con una voce innovativa, amica della storia, come però fosse in un eterno crepuscolo. Morfisa è secondo me un libro di un nuovo approdo. Lo hai vissuto cosi anche tu? 

Sono felice che ogni tanto i lettori più accorti notino il nuovo approdo di Morfisa: si, è il mio libro più libero, più rischioso e inventivo ma sia l'editore (e l'editoria in genere) sia i recensori non sembrano essersene accorti. Credo e so di aver fatto qualcosa di nuovo con Morfisa (nuovo non solo per il mio percorso) ma forse ho esagerato, abitiamo tempi dove il nuovo deve luccicare in superficie e non correre rischi. Mi è capitato anche con Isole senza mare, che è libro diverso eppure ugualmente correva il rischio di mescolare la biografia con il romanzesco intrecciando storie specchianti che non si incontrano in modo letterale ma solo metaforico. In Morfisa si è compiuto un percorso acquatico e mediterraneo che era iniziato tanto tempo prima, non solo nelle protagoniste femminili (Aquila di Isole senza mare, Lisario e Morfisa) ma anche come hai ben colto nel rapporto con il mare nostrum. Di recente in una Summer school tutta dedicata alle letterature del Mediterraneo, mi sono ritrovata a fare una sintesi: tutte le volte che i miei protagonisti sono entrati dal mare a Napoli (ne Il cielo capovolto, in Una lunga notte, in Lisario, in Morfisa) e le mie origini sarde, oltre che napoletane, con una nonna e una mamma spaventate dal mare e che mai hanno imparato a nuotare, figlie di un'isola nell'isola, La Maddalena, e di un nonno capitano di lungo corso.
Arrivi dal mare, morti e rinascite in mare, sono diventate con Morfisa l'infinito potere femminile dell'acqua e del raccontare storie, la consapevolezza di poter raccontare qualunque cosa, l'affermazione assoluta del potere creativo e insieme la sintesi di Napoli e della sua storia più dimenticata e delle connessioni narrative che vanno da Napoli alla Francia al Giappone medievale. Si, Morfisa, è stata un'affermazione di potenza o forse una constatazione di libertà, di una libertà tutta femminile.

L'attività di insegnamento di scrittura è ancora e sempre più un tuo orizzonte di riferimento. È come un'attività di semina, che insegna a seminare: idee, suoni, simboli, visioni. Quali sono le prospettive per la nuova stagione? 

Insegnare scrittura è un'attività a tempo pienissimo da quasi trent'anni per me: parte ora il secondo anno del primo master in scrittura e editoria nato dalla collaborazione fra la scuola che ho fondato, Lalineascritta (www.lalineascritta.it) nel 1993 e l'Università Suor Orsola Benincasa: l'avventura universitaria dei nostri corsi apre la possibilità agli studenti da sud di formarsi a Napoli e fare tirocini presso grandi e medi editori di portata non locale ma nazionale. Questa direzione nazionale e internazionale che la scuola ha preso crescendo in staff, siamo in 7 ormai, ospitando da sempre grandi nomi dell'editoria italiana e approdando anche a una sede finalmente tutta nostra è una svolta essenziale, che ci rende tutti orgogliosi.
Il nuovo anno de Lineascritta propone trenta diversi percorsi fra corsi annuali, stage, workshop, lezioni magistrali e, dallo scorso anno, lo speciale corso dedicato al tutoraggio di romanzi o raccolte di racconti da presentare ad agenti e case editrici: Viaggio al termine del romanzo. Il master Sema, Viaggio al termine del romanzo e i corsi in web conference, che hanno un seguito nazionale e internazionale consolidato e consentono a chi è lontano di seguire in diretta e in registrata le lezioni, sono i nostri fiori all'occhiello. Lalineascritta è ormai un percorso completo che va dalla narrativa alla drammaturgia, dalla sceneggiatura all'editoria, dal teatro alle arti visive.

Antonella Cilento ha dato vita, ormai più di un decennio fa, ad un rete di scrittori meridionali capace di far dialogare voci allora sole, isolate come solo al sud si può essere. Un'esperienza che ha visto nel tempo emergere queste voci, alcune, oggi, tra le più significative del panorama letterario italiano. Un progetto sperimentale e insieme civile, difficile in un'epoca in cui i contesti si sfilacciano sino a scomparire. La cultura del sud vive molte contraddizioni, è sempre tentata dalla seduzione esotica, ed è spesso strumentalizzata, in un'epoca in cui le tentazioni separatiste risorgono, anche al sud. Qual è lo stato della cultura meridionale oggi? 

La cultura meridionale oggi soffre ancora di una ricezione esotica, è vero. Tante voci, tanti scrittori, ancora pochissimi seri editori e una sudditanza, una schiavitù culturale verso il management del nord. Eppure è qui che accadono le uniche novità culturali, qui che esiste un fermento, qui che germina il nuovo. Siamo ancora lontani da un vero cambiamento economico tale da mettere in pari l'industria culturale meridionale con quella del resto del Paese, ma senza le voci che vengono da sud quell'industria avrebbe veramente poco da dire...
Far nascere un master a Napoli è nel nostro piccolo un segnale: la rivoluzione può nascere da sud, dipende dalla nostra tenacia e dalla nostra serietà (penso a Sellerio).

E in ultimo, tornando alla Antonella Cilento scrittrice in proprio, cosa hai in serbo? 

Sono alle prese con la promozione di Non leggerai, uno young adult uscito per Giunti a maggio, dove mi sono molto divertita ma ho anche amaramente messo in luce la condizione culturale del nostro Paese (e non solo).
Sto raccogliendo trent'anni di lezioni di scrittura e poi anche altro, ma è presto per parlarne...

Grazie Antonella, a presto. 
A prestissimo


giovedì 25 luglio 2019

estate indiana

siamo tornati, ma eravamo soli, senza di te. sei qui, sei anche qui. in certi giorni ti abbiamo dovuto cercare lontano. perché noi eravamo lontani. (monte soro, metri 1847 slm, novembre 2014)

lunedì 8 luglio 2019

Christian Raimo. di luca alerci

Christian Raimo è un letterato la cui attività è davvero ampia, di produzione, di promozione culturale, di impegno civile e politico. Lo sguardo della sua letteratura è proiettato sicuramente sull'oggi, alla ricerca di ciò che accade.


Il presente è invaso da un discorso politico molto superficiale e polarizzato. È dunque molto interessante raccontare il contesto sociale attraverso delle lenti diverse, che possano definire le complessità del mondo contemporaneo, dalla fine del lavoro come lo abbiamo immaginato nel Novecento, al cambiamento climatico, alla questione dei diritti civili: c'è un mondo che sta cambiando molto in fretta e invece la retorica del discorso pubblico è spesso puerile e noiosa. Chi prova a scrivere, a fare un lavoro diverso, che sia il giornalista o lo scrittore, persino il politico, ha il compito di aggiungere complessità.


La letteratura deve surrogare l'indagine giornalistica, spesso così sfilacciata e legata a una dimensione da gossip?


La letteratura ha un'ambizione sempre universale, da Omero a Shakespeare, da Tolstoj a Beckett: vuole descrivere una mappa che è sempre più grande del territorio investigato. È anche vero che, in tempi di crisi, il discorso letterario spesso arriva ad avere un ruolo di supplenza rispetto alla decadenza del discorso politico. Se però la politica deve cercare di andare verso il giusto, la letteratura deve andare verso il vero: in momenti in cui la politica è molto degradata, la letteratura mentre cerca di raccontare il vero può, del resto, interrogarsi anche su che cosa è il giusto. Ciò è un male per la letteratura, che chiaramente è uno spazio di libertà assoluta in cui si da voce alle ombre: i capolavori letterari ci raccontano la vita interiore, cosa hanno in mente assassini, pedofili, traditori, stragisti. La politica invece deve rimappare e descrivere un contesto in cui si cerca il bene comune, circoscrivendo le pulsioni peggiori. La letteratura non deve cercare il bene comune ma la verità della condizione umana: gli scrittori non sono quasi mai dei buoni politici e i politici non sono quasi mai dei buoni scrittori.


A questo proposito, quest'anno ricorre il trentennale della morte di Sciascia, che aveva cercato di mettere insieme, con tutte le contraddizioni di cui si diceva, la ricerca della verità con la possibilità di rintracciare una visione di bene comune.


Ho avuto la fortuna di lavorare su Sciascia quest'anno a Torino, per un testo drammaturgico in cui si cerca di tracciare una parabola del suo percorso letterario e civile. Sciascia è uno dei più grandi scrittori del Novecento, nel senso che non se ne può parlare se non prendendolo a modello di intelligenza e di analisi della storia, della politica e della società, ma soprattutto come modello letterario. Come si diceva prima, il compito di un intellettuale è aggiungere complessità, e Sciascia questo lo fa in modo esemplare. Le pagine di Sciascia sulla mafia, ogni volta, riescono a rovesciare il nostro punto di vista, ad approfondirlo, a renderlo multi direzionale: tutte le pagine di Sciascia riescono in questo, quelle di fiction e quelle di non fiction. Ci manca moltissimo, ci mancano quegli scrittori come Alessandro Leogrande come Luca Rastello, scrittori civili nel senso che per loro la civitas è l'universo.


La letteratura italiana mantiene le promesse che questi ultimi testimoni ci hanno lasciato?


Io penso che gli scrittori italiani, in un modo o nell'altro, come era prevedibile, stiano diventando sempre più scrittori del mondo: sempre più ci sono scritture di seconda e terza generazione, sempre più ci sono scrittori che vivono all'estero. Sono usciti libri molto belli, Città irreale di Cristina Marconi, La straniera di Claudia Durastanti, Il pieno di felicità di Cecilia Ghidotti, e poi ci sono scrittori italiani che scrivono direttamente in altre lingue. Per fortuna, dunque, la letteratura italiana diventa sempre più porosa alle voci del dialetto, come a quelle di altre lingue. D'altra parte, una delle caratteristiche fondamentali di questi ultimi anni credo sia stato il desiderio di impegnarsi in tutte le forme di attivismo culturale, per essere utili alla voce degli altri. A partire da Nicola Lagioia, uno degli scrittori più importanti in Italia, il cui impegno negli ultimi tempi è stato spesso quello di organizzatore.


Christian Raimo è attivo nel mondo dei social media, in maniera molto strutturata, oserei dire. Il mondo dei social appare alcune volte inabitabile, per l'eccesso di odio o comunque di intolleranza, eppure è un luogo indispensabile per trovare accessi e cercare il dialogo, anche tra periferie, fisiche e culturali, e centro. Come lo interpreta Christian Raimo?


È un discorso troppo complesso. È evidente la democratizzazione connessa ai social, eppure è altrettanto evidente la privatizzazione di questo mondo. Non ci sono i social, ci sono tre o quattro social proprietari che hanno delle regole sempre meno trasparenti e sempre più dannose verso i diritti fondamentali, dalla privacy al rispetto basilare delle regole, appunto, democratiche.


Tutti dicono che il mondo della scuola è in crisi, che gli insegnanti sono ormai irrilevanti, che i giovani si formano altrove, oltre la scuola. La scuola, del resto, non è ovviamente più il luogo della sola trasmissione di una tradizione culturale. Le risorse, infine, sono sempre meno. Cosa pensa l'insegnante Raimo dello stato della scuola oggi?


La scuola italiana, negli ultimi anni, è stata pesantemente de-finanziata, in termini assoluti e in termini percentuali, rispetto al totale della spesa pubblica, soprattutto sotto i ministeri Moratti e Gelmini: questi fondi non sono stati più recuperati. D'altra parte, non c'è stato un adeguamento degli stipendi degli insegnanti all'inflazione, c'è stata una perdita media di 300 euro al mese negli ultimi quindici anni. Questo è un problema reale che inevitabilmente incide sulla possibilità di avere delle scuole con spazi e luoghi adeguati e una formazione degli insegnanti all'altezza. La scuola è un organismo vivo:  se si nutre riesce a essere vivo di per sé, altrimenti sopravvive, con tutto ciò che ne consegue.


In questi giorni, è uscito il suo saggio "Contro l'identità italiana" edito da Einaudi. Un titolo sicuramente incisivo.


È un libro molto semplice. È evidente che ci sia il ritorno di un neo nazionalismo molto forte, con delle forme di nostalgia per delle pagine scurissime della nostra storia come quelle del fascismo, dell'imperialismo, del colonialismo. Questo libro indaga le ragioni di tale ritorno, ragioni che sono nel passato prossimo della storia italiana, gli anni Novanta e i primi anni Duemila, e ragioni culturali fondate nell'Ottocento, coloniali appunto e imperialiste. E c'è, naturalmente, un contesto di riferimento globale in cui l'identità sembra l'ultimo rifugio per chi si sente perduto tra la globalizzazione e le ansie verso il futuro.


Una lettura affascinante e importante. Ringraziamo Christian Raimo per la disponibilità e la cortesia. Speriamo di poterlo presto risentire.


Grazie.




martedì 2 luglio 2019

felice giorno

felice giorno. con tanti amici, cari e rimpianti alcuni, abbiamo per anni promosso letture, ascolti, idee, visioni, illuminazioni, semplici voci. in radio, attraverso rappresentazioni, incontri, dialoghi. oggi è il felice giorno in cui questa memoria ritrova la sua attualità, viene trascritta e riproposta in queste pagine on line.
il blog di vite nell'appennino siciliano.
luca alerci

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  La visita Vivo qui. È una casa a schiera, costruita ormai cent'anni fa. Tutte le piccole case adiacenti hanno la stessa struttura: ad ...