giovedì 3 ottobre 2019

Dialogo con massimo onofri. di l. alerci







Massimo Onofri è uno scrittore, un intellettuale, un critico, una figura tra le più rilevanti in Italia. Lo abbiamo contattato, e volevamo farlo da tanto tempo, per rivolgergli alcune domande. In primo luogo Sciascia, Autore che è stato capace, nella sua produzione, di tracciare un percorso, una mappa con la quale orientarsi nella letteratura, nella politica, nell'arte, nella storia del pensiero. Chiediamo a Massimo Onofri, interprete fondamentale dello scrittore di Racalmuto, a partire da "Storia di Sciascia", di fare la stessa cosa, darci una chiave di lettura della sua opera, ordinarne le fasi, i periodi, tracciarne l'evoluzione.

In primo luogo, mi fa molto piacere che anche nei giovani o comunque nelle generazioni successive (anche se, diceva Croce, i giovani hanno un unico dovere, quello di invecchiare...), il mio lavoro sia capace di fecondare l'analisi e il dibattito. Io sarò a Racalmuto, in occasione del trentennale dalla morte, ad occuparmi di nuovo di Sciascia, dopo Storia di Sciascia, nel quale veniva rovesciato il paradigma dello scrittore illuminista: Sciascia è semmai un barocco mentale, dissimulato dietro un finto illuminista. Nel suo bellissimo saggio su Stendhal, Sciascia parlò di tre gradi dello stendhalismo, e io mi sono fatto l'idea che esistono tre gradi dello sciascismo (forse è la prima volta che la dichiaro, quest'idea). Il primo grado dello sciascismo, quando si inizia a leggerlo, è ovviamente quello dei gialli problematici, dal più famoso Il giorno della civetta fino ai foschissimi apologhi sul potere quali Il contesto, Todo modo, Una storia semplice e soprattutto Il cavaliere e la morte. Questo è lo Sciascia da cui non si può non cominciare. Se però si entra dentro questo labirinto, si comincia ad amare molto il saggista, ed è questo il secondo grado dello sciascismo. Io farei, a questo proposito, un nome, che faccio adesso poiché è uno scrittore che ho conosciuto tardi ma che è diventato un modello fisso. Io mi sono accorto che Sciascia saggista è lo scrittore italiano che più somiglia a questo scrittore che ti dirò, e cioè Sebald, il grande Sebald, l'autore de Gli anelli di Saturno, di Vertigini, autore di un saggismo narrativo, misterioso, pieno di inciampi, metafisico. Sciascia, per eleganza, per saggezza, per forza, è in questo senso il Sebald italiano: in questo grado, Sebald è comunque ancora più grande di Sciascia. L'ultimo grado, riservato a pochi eletti dello sciascismo, è rappresentato da uno dei libri più misteriosi che siano apparsi nella storia di letteratura italiana, e cioè L'affaire Moro. Che scrittore è Sciascia? L'affaire Moro, infatti, sembrerebbe un libro di servizio e impegno civile, sollecitato da una indignazione, da una preoccupazione. E invece - inizia con "Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola…." e dunque con l'omaggio a Pasolini - già da queste prime righe bellissime, noi entriamo dentro una resa dei conti con tutta la letteratura italiana, che probabilmente non è stata in grado di raccontare i drammi della politica, se non con gli scrittori engagé, piuttosto rozzi (pensa al disamato Vittorini, una personalità interessantissima naturalmente, ma io la vedo come Sciascia, se si prende in mano Vittorini cadono le braccia... e scopri che è più grande Brancati - ma sono discorsi tutti già fatti da Sciascia). L'affaire Moro è ovviamente un apologo sul potere, è una resa dei conti con la tradizione, ed è una riflessione sulla forma della narrazione. Adorno disse: non è più possibile la poesia dopo Auschwitz. Ebbene, si potrebbe dire che, in Sciascia, il romanzo non è più possibile dopo la morte di Moro, perché diventa molto più romanzesca e incredibile la realtà, e Sciascia scopre di aver anticipato quelle vicende nei suoi romanzi. Non è affatto presunzione, come l'accusò Scalfari, ma è invece una constatazione, molto umile, di aver scritto dei libri dove già c'era quella storia d'Italia. Ma se si procede nella lettura e nella rilettura de L'affaire Moro, ci si accorge che è ancora una cosa ulteriore, è un libro sulla critica letteraria e sulla filologia e sull'interpretazione dei testi. Questo è il terzo grado dello sciascismo a cui possono arrivare solo gli spiriti eletti che sono entrati dentro Sciascia e ne possono capire davvero la grandezza.

In Storia di Sciascia, si individua come anello di congiunzione tra la fase classica di Sciascia e quella successiva, un libro come Il consiglio d'Egitto.
Si, un libro straordinario. In questa nuova chiave dei tre gradi dello sciascismo, rappresenta il passaggio tra il primo e il secolo gradino. È infatti anche un grande saggio implicito sul potere, forse il libro di Sciascia che ho più amato. Se, allora, si vogliono guardare i tre gradi dello sciascismo dal punto di vista dei libri da amare, prima si ama Il consiglio d'Egitto, poi Cruciverba e Nero su nero e poi, appunto, L'affaire Moro.

A proposito di eredità, di cose che si sono capite e non capite: le testimonianze di Sciascia, Pasolini, questa universalità, chi la interpreta nella letteratura italiana contemporanea? 
Il tempo di Sciascia, Pasolini e Calvino, uno scrittore grande che pur non amo, è passato; tre intellettuali e scrittori molto diversi ma così grandi, ebbene, non potranno esserci più, e non perché gli uomini e le donne siano peggiorati nel tempo. Ma perché gli Sciascia, i Pasolini e i Calvino di oggi fanno altro. Questi tre intellettuali avevano a che fare, nei loro obiettivi polemici, con la DC di Andreotti e Moro che, ci piaccia o non ci piaccia, sono dei giganti, a cominciare da Andreotti: un gigante del male? Un gigante comunque. Oggi la realtà politica è così semplificata, cosi semplice da leggere; e questa non è polemica contro qualcuno in particolare. Siamo di fronte a dei nani che non sono nani per qualità, ma che devono essere nani per emergere in questo mare di nani. Se ci fosse un Moro, un Andreotti, un Berlinguer, un Craxi, non emergerebbe poiché troppo complesso. Di fronte ad una situazione così, lo scrittore civile più impegnato ed efficace è un grande semplificatore, cioè Roberto Saviano. Non lo dico, attenzione, a detrimento di Saviano, che ha intercettato lo spirito dei tempi ed è il piu bravo a farlo. Per quanto mi riguarda, però, io credo che i veri scrittori sono da un'altra parte, e infatti leggo Sebald e sperimento forme di scrittura diverse, che sono implicitamente ma, non più, esplicitamente politiche. Io però non voglio essere pessimista. Non c'è più quella tensione tra scrittori, potere e contro-potere, questo è vero; la letteratura italiana è comunque in salute, solo che le cose si trovano dove non ce lo aspettiamo. Faccio un nome che forse non conosci. Giuseppe Marcenaro, col suo libro Cimiteri, è un saggista che può stare alla pari di un Sebald in Italia, che pratica una scrittura dentro un orizzonte che pare quello di Vincenzo Monti, neo-sepolcrale, dove il problema più grande è diventato l'invisibile. Faccio un altro esempio. Oggi, se non ci serve più Vittorini, ci serve molto di più Elsa Morante. Chi è Elsa Morante? È un genio del Novecento, che ha intercettato l'invisibile. Pensiamo a Lo scialle andaluso, dove la Morante ha intercettato nel mondo di qua, messaggi dell'aldilà. Io sono un figlio di Montaigne, ho sempre avuto sospetti sulla metafisica, ma oggi gli scrittori migliori si occupano di metafisica e non di fisica, del nichilismo, del problema della morte. La grande letteratura si gioca solo lì. L'ultima stagione in cui la politica e la società meritavano l'attenzione dei più grandi intellettuali e scrittori è stata, appunto, quella di Sciascia. Ovviamente non sto dicendo di gettare le armi, ma dico che gli intellettuali, sulla politica di oggi, non hanno da dire nulla di più o di meno di un normale cittadino. Facciamo i cittadini. La letteratura è da un'altra parte.

Uno degli ultimi libri di Massimo Onofri, Passaggio in Sicilia, ripercorre i luoghi dell'isola, seguendo le tracce della letteratura, dell'arte. Ci sono scrittori siciliani viventi che rimandano alla grande tradizione della letteratura siciliana? 
Che cosa sarebbe la letteratura europea dell'Otto-Novecento senza la Russia? Senza Tolstoj, Dostoevskij, Puskin, Gogol? La stessa cosa si dovrebbe dire del Novecento italiano. Che cosa sarebbe senza la letteratura siciliana? Quasi niente. Bisogna partire da questo, per poter fare un discorso serio, storicamente fondato. È chiaro che, anche nelle più giovani generazioni, la Sicilia ha una forte vitalità. Però io ricordo, quando esordivano, sino agli anni Ottanta, scrittori bravi come - ne cito uno - Roberto Alajmo, c'era una coesione che oggi non c'è più. È tutto frammentario. Oggi in Sicilia si incontrano scrittori interessanti, bravi: Domenico Conoscenti, che, con La stanza dei lumini rossi, ha scritto uno dei più bei libri della letteratura italiana degli ultimi vent'anni; tra le scrittrici la bravissima Vanessa Ambrosecchio, raffinata, coltissima, una straordinaria narratrice. Poi penso a carissimi amici, Salvatore Ferlita e Matteo Di Gesù. E penso che Sciascia, Consolo, perfino Bufalino, che pur era refrattario all'impegno, si collocavano dentro un laboratorio, che era soprattutto un laboratorio critico. C'erano le idee, a cui loro davano corpo. Oggi invece noi abbiamo bravissimi scrittori che vanno ognuno per la propria strada, non c'è più un laboratorio. Del resto, la Sicilia è stata il laboratorio critico dell'Italia, sin dall'Unità. Oggi dunque non c'è più un contesto, che c'è invece, clamorosamente, più vivo, in Sardegna, altra isola che abito. La fine del laboratorio critico siciliano avviene insieme alla fine dei laboratori politici della Sicilia: gli ultimi esperimenti sono stati, ci piaccia o non ci piaccia, prima Orlando e poi anche Crocetta, al di là dei risultati, per me da combattere - sono un anarchico con senso dello Stato, secondo la definizione di Sciascia - ma comunque sono stati grandi scommesse, atti di grandi generosità. Oggi non mi pare ci sia più niente da questo punto di vista, si vota Lega come dovunque. Anche in Sicilia, la politica come mediazione, come complicazione, come composizione di interessi non c'è più. Ci sono slogan e politici che sono lo status quo al massimo grado,

Una domanda obbligata. Massimo Onofri è attivo sulla rete, come tutti noi, ma questa rete sembra avere maglie sempre più strette, essendo il discorso sui social spesso orientato da poche entità di cui si sa pochissimo. Tra l'altro vanno emergendo pulsioni molto preoccupanti, oscurantiste, retrograde, anti scientifiche.
Io non mi preoccuperei più di tanto. La rete è la riproduzione del mondo. Quel tipo di idioti c'erano prima e rimbalzano ora sulla rete, inseriti in gruppi più o meno ampi. Sono battaglie perse. Per quanto mi riguarda, invece, sempre con Montaigne, ti posso rispondere solo sulla "stanza della mia torre". A me Facebook ha cambiato la natura di scrittore: Benedetti toscani (editore La nave di Teseo, 2017 ) l'ho scritto su Facebook. All'inizio erano tutte registrazioni delle fumate che facevo, o sul mio balcone ad Alghero, o sulla panchina sotto la palma nana. Era semplicemente una specie di reportage intimo, dell'interiorità, diciamo così. Certo, c'erano figure che avevano un corrispettivo nella vita reale: a volte scrivevo per mandare messaggi d'amore alla Principessa Nuragica, perché poi la vita è fatta così. Il mio ultimo libro, Le isolitudini - Atlante letterario delle isole e dei mari (editore La nave di Teseo, 2019 ) di cui sono molto orgoglioso, nasce per modificare la scrittura saggistica, antropologica. Ogni isolitudine è un romanzo latente: parlo delle Mauritius e allora ecco Le Clezio, il premio Nobel; parlo di Maiorca e racconto la storia d'amore di George Sand e di Chopin; vado nelle Antille e incontro Walcott; e poi ci sono naturalmente isole immaginarie. Ci sono cinquant'anni di letture matte e disperatissime, e di letture fatte proprio in quel momento, come per Le Clezio. Prima di raccontarla, l'isola che sceglievo viaggiando, era un pretesto per studiarla. Non ho studiato tanto come nell'anno e mezzo in cui ho scritto Le isolitudini, che poi sono delle fantasticherie. Ecco perché io amo Sebald e Walser, perché hanno dato concretezza ad un concetto del pur peggior filosofo della storia dell'umanità, Rousseau, che però ha prodotto uno dei più bei libri, che io adoro: Le fantasticherie del passeggiatore solitario. Rousseau è il padre di tutti i mali, dei totalitarismi, ma ha scritto questo libro, senza il quale non ci sarebbero appunto Sebald, il Walser de La passeggiata, il Thoreau di Walking (Camminare). Io, applicando il concetto di fantasticheria, mi sono anche costruito gli strumenti di una scrittura nuova, diversa dai saggi e dagli articoli classici, che continuo comunque a scrivere. Da questo punto di vista, insieme a Benedetti toscani, è uscito pure Fughe e rincorse, una raccolta di saggi "classica" (con un editore sardo, InScibboleth) che ho costruito per far lavorare i miei allievi. Io ho dato loro il mio libro, non ho niente, ho dato tutto a loro. E sono molto contento: il mio lato di professore è per me un lato molto importante. In una TV di Caltanissetta, mi hanno chiesto come fosse nato Le isolitudini e io non me l'ero mai domandato: e allora ti rispondo, ancora da figlio di Montaigne. Le isolitudini sono dei sogni, delle compensazioni di una vita reale insoddisfacente nell'immaginario, e il libro è nato proprio così: io ero molto innamorato della Principessa Nuragica, che veniva tutte le mattine da me, ogni giorno, per amarci. Ma poi è finita, e a me è rimasto molto tempo libero: e così sono nate Le isolitudini.

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