La visita
Vivo qui. È una casa a schiera, costruita ormai cent'anni fa. Tutte le piccole case adiacenti hanno la stessa struttura: ad ogni casa si accede da una piccola scala, ogni casa ha un piccolo giardino davanti. Le dimensioni sono minime. Silenzio intorno.
Ogni cosa com'è sempre stata. Ci sono le foto di tutta la mia famiglia, gli scarni mobili sempre gli stessi, i colori, gli odori, tutto immutato. Eri soprattutto tu che volevi fare dei cambiamenti.
Ora che il tuo profumo sta svanendo anche nell'ultimo rifugio - l'armadio della nostra stanza - sarebbe stato bello vedere intorno a me ancora qualcosa di tuo. Amavi il viola. Una carta di piccoli fiori viola, averla anche solo nel soggiorno, perché dissi di no? Forse eravamo troppo grati alla vita per fare progetti: ci bastava ciò che già avevamo, noi stessi.
Mi siedo. Apro il giornale. Ci sono dentro tutti i nostri giorni, conservati come si fa con i fiori secchi degli erbari.
Ci sono i versi che ti dedicavo:
"Sono qui che aspetto, ti guardo da lontano.Ferma nell'odore dei mandaranci gridato dai venditori. Dimmi: perché mi senti? Perché mi vuoi?"
Richiudo tutto, e lo ripongo sullo scaffale grande, sopra i libri che leggevi. Ci sono I complici di Simenon, c'è quel piccolo libro della Woolf che amavi tanto, ci sono le poesie della Dickinson.
Alcuni rumori, dei passi. Saranno le solite visite qui accanto.
No, stavolta no. Sei tu.
Mi saluti: "ciao amore mio, sono qui. Mi senti?".
E io: "certo che ti sento, perché non entri? Sai, devo dirti una cosa, subito. Pensavo che stavolta potremmo davvero metterla quella carta che ti piaceva tanto, quella con le violette".
Lei resta con lo sguardo fisso, gli occhi un po' arrossati, ora li vedo meglio.
Mi dice: "stanotte sognavo. Non mi capita più tanto spesso ormai. E ti vedevo che tornavi, quella volta, l'impermeabile scuro, la giacca di lana, il lupetto amaranto. È lì che sentivo di più il tuo odore, proprio sulle gote".
Era il giorno quando avevo perso la coincidenza del treno ed ero arrivato a casa solo alla sera. Lei tremava mentre mi stringeva, ma soprattutto cercava quell'odore.
Ha lo sguardo vuoto e ricomincia: "ma non importa".
"No, importa eccome, riesco a ricordare ogni dettaglio di quell'abbraccio", le dico.
Ma lei, di nuovo spenta, sussurra nel pianto spezzato: "perché non torni almeno una volta?"
Sento uno squillo, è il tuo telefono. La vedo che parla, accenna a sorridere, gli occhi si placano. Sarà sua sorella. E mentre la scruto in silenzio, finalmente penso che dovrei cambiarla davvero questa casa. Portarla a vivere al mare, lontano da qui. Mio padre mi raccontava spesso di una casa al mare che aveva sempre sognato sulla costa dello Jonio. E io l'ho immaginata avvolta dalle spume delle onde infrante sulla scogliera, mai in estate, sempre come ora, in inverno, con le luci livide e possenti. Perché no?
Mentre penso a queste cose, lei ripone il telefono nella borsa, e ricomincia a guardare. È un po' stanca e si va a sedere sulla panchina del giardino: si guarda attorno come sognando.
La chiamo: "stai pensando al pergolato? Un altro dei nostri piccoli sogni incompiuti".
Lei guarda in basso e osserva: "è strana questa sensazione di calore, di vita. Eppure poco fa era così freddo il viale."
E comincia a ripetere tra sé: "Iam hiems transiit... flores apparuerunt in terra nostra... tempus putationis advenit… vox turturis audita est in terra nostra...".
Già. Ha proprio ragione. Il tempo della potatura è arrivato.
"E se domani non mi trovi - le grido - sarò a cercare una nuova casa, sugli scogli dello Jonio."
Ma lei si rialza. Mi guarda e dice: "sì, l'inverno è passato, il tempo della potatura è arrivato, la voce della tortora canta… Domani vengo a cambiarla questa tua foto. Porto quella col lupetto amaranto. E ti sentirò ancora amore mio."
La guardo che se ne va. A domani, penso. Eppure domani vorrei non esserci. Serro la chiave. La vedo mentre guarda distratta gli altri sepolcri in fila.
Una sera venne in ritardo, era già troppo buio, ma aveva nevicato e la neve riflettendo la poca luce donava a questo viale una dimensione irreale, dove si scorgeva ogni dettaglio senza che apparentemente si vedesse: fiori finti, vasi secchi, guglie. Potei guardarla solo da lontano, il cancello era ormai chiuso.
"Sei stata al lavoro sino a tardi vero?" le gridai. "Venire qui, da sola, con questo tempaccio. Devi stare più attenta, lo sai. Senza di te come farei."
Torno a sedermi. Prima che sia tardi, prendo il giornale, lo apro e scrivo per il foglio di oggi: "L'inverno è passato e il tempo della potatura è arrivato. Abbiamo ascoltato la voce della tortora... Che l'inverno passi solo per te, amore mio."
Luca Alerci
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